Per Sandro
Contributo a “Frammenti di Futuro” Alessandro Anselmi e la cultura dell’Architettura a Roma.
28 febbraio 2013. Facoltà di Architettura sede DiAP “Valle Giulia”
Eccomi qui a scavare in un passato ormai remoto (inizio anni ’60, mezzo secolo fa) e provare a riportare alla luce il tempo e le idee su cui Sandro si è formato come architetto, insieme a me stesso e insieme ai compagni con i quali demmo vita al GRAU.
Da allora per tutti noi c’è stato lo scorrere di una intera vita professionale con nuove esperienze, adattamenti, incontri e scoperte, ma di quel periodo resta intatto il valore di solido terreno sul quale ognuno ha fondato il suo essere architetto.
Fin da quegli anni Sandro possedeva le qualità che tutti ben conosciamo.
Una grande curiosità naturale per le forme e le strutture delle cose, onnivora, simile a quella di un bambino entusiasta e incantato che può guardare tutto con occhi nuovi. Sandro era capace di descriverti un paesaggio magari solo letto su una mappa facendotelo vedere come se lo disegnasse davanti ai tuoi occhi, così come da ragazzo ti sapeva descrivere tutti i carri armati della seconda guerra mondiale e te ne disegnava i dettagli. Anche nelle ultime settimane della sua vita, stremato nel fisico, bastava che tu introducessi un discorso di architettura, ma anche sulla forma delle cose, ed ecco che subito si animava ed entrava nell’abituale gioco di giudizi, analogie, analisi.
Questa qualità che gli permetteva di fissare l’attenzione sopra ogni cosa era temperata e come filtrata attraverso una solida innata concretezza di giudizio che gli derivava anche dalla esperienza di militanza politica degli anni giovanili, per cui ogni problema era alla fine contenuto nei suoi termini essenziali. Tutti noi conosciamo questa sua qualità attraverso i suoi rapidi schizzi prospettici, capaci di racchiudere senza semplificazioni tutta la complessità di un progetto in un segno, talvolta semplice come un ideogramma.
Un sicuro giudizio, che si basava su un abito mentale dialettico e materialista, tutt’altro che dogmatico,ma al contrario piuttosto spregiudicato. Non era facile progettare con Sandro: dovevi abituarti a rovesciare in ogni momento i termini dei problemi e rivedere il progetto secondo nuove angolazioni. Ricordo che il Palazzo dello sport di Firenze, concorso che progettammo insieme nel 1965 mantenne una forma fino a pochi giorni prima della consegna e fu radicalmente modificato nel corso dei disegni finali.
Di quegli anni di formazione, dal 1961 in poi, vorrei quindi raccontare, quando, negli ultimi anni da studenti e poi come architetti ancora insieme per una decina di anni, ci siamo impegnati nel laboratorio del GRAU.
A vederla con gli occhi dell’oggi l’operazione intrapresa allora può mostrare semplificazioni e parzializzazioni. Fondare la ricerca sullo specifico linguaggio artistico portava ad un’architettura chiusa e autoreferenziale. Ma era un prezzo che eravamo disposti a pagare pur di liberarci dalle secche di un mai morto accademismo e da una stanca ripetizione degli ultimi stilemi del Moderno, quali ci erano stati trasmessi dalla scuola. Lo stesso Sandro che ha poi più di altri superato quelle riduzioni non ha mai negato il valore fondativo di quel momento.
Ho conosciuto Sandro quando siamo usciti frustrati da un biennio alienante e, di colpo, è accaduto qualcosa che ha in parte ricambiato l’aria stagnante che si respirava in Facoltà. Nel 1962 maturò la rivolta contro il corso di composizione V° di Saverio Muratori. Non più critica ma opposizione frontale con occupazione del corso e blocco della didattica: Il senato accademico fu costretto a affidare un corso parallelo ad altro docente. Tra l’altro da quel momento iniziò un processo di svecchiamento che portò a Valle Giulia Libera, Quaroni e poi Zevi.
Da parte nostra, degli studenti, decidemmo che i contatti tra noi sarebbero continuati. Nacque il GRAU.
Chi eravamo? Di estrazione prevalente piccolo borghese, per lo più senza ascendenti familiari nel mondo dell’architettura, con un buon liceo alle spalle, senza orientamenti politici precisi ma con una grande curiosità e voglia di darci da fare. Solo alcuni avevano un background politico nella FGCI, tra cui Sandro e Mimmo Parlato, che però, di formazione più ortodossa, si staccò presto dal gruppo.
Le differenze di formazione tra di noi ci costringevano all’inizio a ridefinirci di continuo in discussioni che tendevano a essere totalizzanti, a investire cioè ogni aspetto della politica culturale, della ricerca artistica, dell’impegno professionale. Le discussioni proseguivano poi in documenti scritti interni rimasti inediti, che forse avrebbe oggi qualche interesse pubblicare e rileggere. Preparavamo esami e poi progetti di grandi concorsi o di piccola committenza in gruppi ristretti che sottoponevano periodicamente i risultati al giudizio e ai contributi di tutti. Vivevamo in regime di cooperativa e dividevamo equamente lavoro e proventi.
Pur ritenendoci tutti ben presto di sinistra vicini al PCI, consideravamo fortemente riduttivo il ruolo che il Partito assegnava agli intellettuali e agli artisti, elementi al servizio della classe operaia e i problemi dell’architettura sociale e del realismo socialista a cui peraltro da bravi compagni davamo il nostro contributo critico, da soli ci andavano stretti.
Quello che il pensiero ufficiale del Partito ci negava, una relazione di interdipendenza tra pensiero politico e espressione artistica lo trovammo nella riflessione estetica del filosofo Galvano Della Volpe, marxista eterodosso, la cui “Critica del Gusto” era uscita nel 1960.
La sua riflessione dava sistematicità ad alcune esigenze che esprimevamo in quegli anni.
Riaffermare l’autonomia del fare artistico dalla sua utilizzazione politica immediata, entro però una cornice di riferimento materialista, antiromantica, antiidealista.
Elaborare strumenti specifici logico-conoscitivi , nella fattispecie geometrico-compositivi che funzionassero come termini di comunicazione all’interno della sperimentazione progettuale.
Quella lettura ci insegnava infatti che Arte non è tanto un prodotto quanto uno strumento di conoscenza del mondo e la progettazione , cioè il fare Arte è di per sé indagine conoscitiva razionale che tende all’unità, o almeno alla non contraddizione, come accade per le scienze e per la morale.
Dalle sue riflessioni ricavammo inoltre che ogni linguaggio artistico ha le sue forme e i suoi materiali specifici e non è riconducibile ad una generale categoria poetica. Per noi questo si traduceva nell’individuare nella geometria tridimensionale e poi proiettiva, nelle loro leggi e trasformazioni la grammatica e la sintassi del nostro fare architettura.
Della Volpe ma anche il Colletti dell’Introduzione alla Critica dell’Economia Politica ci insegnarono a vedere la Storia non in sequenza temporale ma materialisticamente orizzontale a noi tutta contemporanea e di conseguenza a considerarla come un serbatoio di forme e strutture logiche da cui attingere. Questo ci permise di superare la separazione dei saperi e di considerare realtà viva e operante l’intera storia dell’architettura.
Entro questo quadro logico, qui forse troppo sommariamente delineato, la scoperta delle architetture di Louis Kahn ci diede il senso di aver trovato un compagno di strada lontano ma molto simile a noi. Ricordo bene come questo avvenne perché capitò a me di scoprire Kahn, sedotto dalle rare immagini che trovavo su riviste e di farlo conoscere ai compagni del GRAU, fin dai progetti degli ultimi esami universitari.
Kahn in quegli anni traduceva in architetture costruite ciò che noi stessi andavamo definendo con scritti e disegni: ci colpiva la capacità di richiamare esplicitamente nel progetto antecedenti storici remoti che nella sua rielaborazione producevano un nuovo sistema di segni ricco e totalizzante, tale cioè da prefigurare un nuovo ordine formale. E per ultimo, sia detto a margine, Kahn ci piaceva come interprete di quanto avevamo da sempre negli occhi con le architetture di Roma, fatte di masse murarie, di planimetrie adrianee, di organismi dalle gerarchie sapientemente modulate.
Il paradigma compositivo di quegli anni nella produzione di Sandro è rappresentato, come è noto, dal cimitero di Parabita in cui la logica della trasformazione proiettiva è spinta all’estremo livello di astrazione, in cui però la mano dell’artista riesce a mantenere l’equilibrio dialettico degli opposti e a farne il tema stesso della composizione: organizzazione centrale-sintattica/organizzazione sequenziale – paratattica o, per dirla con le parole di Sandro: ” dialettica spaziale tra spazio definito dal punto finito e spazio definito dal punto infinito”.
Sandro ha poi negli anni successivi all’esperienza nel GRAU rivestito e completato l’intelaiatura logica elaborata in quegli anni. E’ stato capace di reintrodurre nella progettazione molti temi e problematiche che in quei tempi di rifondazione erano stati necessariamente e doverosamente rimossi. Così, a titolo di esempio tra tanti possibili, il muro di ascendenza romana, quello che anche in Bramante delimita il volume, si è nei progetti successivi assottigliato, quasi a reintrodurre stilemi da Movimento Moderno, ma, curvato e piegato, conservando però dialetticamente (ancora una volta la dialettica di Sandro) una sua concretezza e materialità, come nella piazza-edificio di Fiumicino o nella copertura di S. Pio.
Così, dopo la chiusa autoreferenzialità dei primi progetti le sue architetture si sono aperte al paesaggio urbano o naturale, non in modo mimetico ma dialettico in contrapposizione ad esso come ancora a Fiumicino, a Sotteville o a Scilla, dove l’oggetto costruito è esso stesso paesaggio che dialoga, rivelandolo, con il contesto entro il quale vive.
Per concludere vorrei citare alcune frasi di Sandro che mi sembrano esprimere al livello più alto sia la sua visione del mondo che la sua condizione esistenziale di artista, frasi ricavate da una intervista raccolta da Maurizio Morandi nel 1980, inedita. Il tema è il rapporto tra impegno artistico e impegno civile, politico culturale.
Sandro dice: “Io alla morte dell’Arte non ci credo e non ci ho mai creduto…nei fatti vediamo che la domanda dal ’77 in poi, ma credo anche prima, generalizzata nella società è stata la ricerca di espressività: altrimenti non capisci alcuni movimenti. Espressività significa volontà di essere qualche cosa; il grande dramma delle nuove generazioni consiste proprio nel fatto che si ha dentro di sé l’esigenza di essere ma al tempo stesso la consapevolezza di non avere la possibilità che questo si esprima.
Questo è importante perché prima la volontà di essere non veniva espressa o se espressa era immediatamente incanalata nelle grandi strutture verticali. La mia storia personale di quando da ragazzo ero nel Partito Comunista è fatta di incanalamento della mia volontà di essere, in quelle strutture verticali che ti davano sicurezza ma che certo garantivano ben poco la tua vera volontà di essere.
E’ questo scollamento tra volontà di essere e possibilità di essere che sotto certi aspetti puoi definire artistico….”
Ecco, Sandro conosceva bene la distanza tra volontà di essere e possibilità di essere nel mondo: l’ha avuta ben chiara e l’ha dominata facendone uno strumento per fare arte e cultura ben affilato. Dei tempi della formazione ha saputo conservare e tenere ben saldo il primo termine- volontà di essere- senza fare concessioni al secondo-possibilità di essere nel mondo- , anche a prezzo di una lunga e mai completamente risolta marginalità professionale, difficile, ma portata con rigore e eleganza.