Astrazioni determinate
Intervista pubblicata in:E. Barizza e M. Falsetti, Roma e l’eredità di Louis Kahn, Franco Angeli, Milano 2014
In quali circostanze il GRAU conobbe l’opera di Louis Kahn?
Ho un ricordo molto preciso del mio primo incontro con Kahn. Nel 1960 sulle pagine di un numero de “L’Architecture d’aujourd’hui” scovai in una rubrichetta di novità una piccola immagine di un disegno di prospetto delle abitazioni del centro di ricerche Salk. Per quanto ne so, era la prima immagine che appariva su una rivista di grande diffusione e credo di essere stato il primo o tra i primi, all’interno del GRAU, a interessarmi di Kahn. Mi diedi un gran daffare a cercare altre immagini ma la ricerca non fu facile né feconda: Kahn rimase affascinante e misterioso fino al 1963, quando il Saggiatore pubblicò il noto saggio di Scully. Fu meglio così: amavamo un Maestro più immaginato che reale, affascinante e criptico, che ci costringeva a rielaborare le scarse immagini che ci arrivavano, a incrociarle con nostre altre suggestioni, con Bramante o con Ledoux, piuttosto che a seguire stilemi, come accadrà più tardi nell’esperienza di intere generazioni di studenti di Valle Giulia.
Tra il 1960 e il ’62 stava prendendo forma il GRAU, più aggregazione variabile di gruppi spontanei che struttura fissa quale si avrà solo dal 1964. Avevamo però già iniziato tra noi, studenti per lo più del 4° anno che condividevamo uno “Studio”, una stretta collaborazione critica sui progetti per gli esami compositivi e anche in alcuni casi una vera progettazione di gruppo. Ognuno di noi utilizzava poetiche e stilemi di questo o quel maestro del Movimento Moderno, molti dei quali erano ancora vivi e operanti. C’era chi guardava a Le Corbusier, chi a Wright o a Aalto; io, per esempio, venivo da un esame di composizione del terzo anno in cui avevo “scoperto” la poetica neoplastica e progettato una palazzina in puro stile Van Doesburg, attratto dal gioco di manipolazione di semplici stereometrie che mi aveva portato a sperimentare a lungo incastri di candidi volumi.
Ma alla fine del ’61 preparai l’esame di Architettura degli Interni con Carlo Chiarini avendo in mente i volumi cubici della piscina di Trenton, e poi un esame di Tecnologia, un sistema di lastre prefabbricate sotto la suggestione delle torri Richards. Dopo il ’63 le suggestioni formali lasciarono il campo a ricerche sistematiche sui progetti di Kahn che venivano pubblicati, alla luce della ricerca teorica che nel frattempo stavamo elaborando sull’uso della geometria e sulle trasformazioni.
Quando poi nell’anno 1964/65 fui chiamato da Carlo Chiarini a collaborare al suo Corso, insieme con Franco Pierluisi e Massimo Martini approfondii quelle ricerche in una serie di lezioni-riletture delle opere di Kahn di cui in Facoltà si parlava ancora poco e male.
Quale è stata la ricaduta del messaggio di Kahn sugli architetti romani?
Per me e per il mo Gruppo Kahn era soprattutto “materia organizzata”, masse murarie che trovavano il loro ordine secondo “leggi aggregative” semplici e chiare. E questo aveva una certa corrispondenza con il nostro amore, replicato in Kahn da lontano, per l’architettura della Roma Imperiale che avevamo ogni giorno sotto gli occhi. Ma soprattutto essa funzionava in me quale alternativa al linguaggio tardo Moderno, che mi pareva materialmente inconsistente più che astratto, confuso più che complesso; linguaggio proposto acriticamente dello sciatto insegnamento che avevamo trovato in Facoltà e che si rispecchiava nella Roma palazzinara di quegli anni. Insomma per me Kahn era un riferimento certo nel percorso di superamento della crisi del Moderno.
Poi le architetture di Kahn divennero più un punto di partenza logico astratto che un esempio formale. Nel 1964 progettai, con R. Mariotti tre piccole case per vacanza sulla costa di Pomezia, poi costruite nell’anno successivo. Volevo che le tre unità, di cubatura minima, pur rimanendo fisicamente separate, apparissero come un solo edificio con patio. Cominciai a lavorare su una pianta di un progetto irrealizzato di Kahn, la casa Kaufmann. Patio quadrato da cui l’edificio s’irradia crescendo diversamente sui vari lati. Lavorandoci sopra ne venne fuori una cosa del tutto diversa e per certi versi opposta al modello di partenza (la puoi vedere, insieme ad altri progetti di quel periodo, in: www.giuseppe.milani.it.)
Posso dire che nei miei progetti prima di questo hanno è evidente l’influenza diretta di Kahn, per esempio nel progetto di sistemazione di Piazza dei ‘500 a Roma o nel concorso per il nuovo Palazzo dello Sport di Firenze, rispettivamente del ’64 e del ’65. Dopo di esso il campo dei riferimenti si allargò (anche grazie all’esempio di Kahn!) e i progetti partivano dalle immagini le più diverse.
Le case di cooperativa di Marino del 1966 sono debitrici dell’impianto centrale a un disegno di Peruzzi di S. Pietro in costruzione, la villa a Palinuro del 1968 a una pianta michelangiolesca per S. Giovanni dei Fiorentini, e così via. E in questi progetti un lavoro più complesso sulla geometria ha portato a risultati molto diversi dalla suggestione iniziale, pur conservando una materialità che ora riconosco di aver derivato dalla lezione kahniana. Dalla quale ho ricavato anche e soprattutto una tensione verso la semplificazione delle forme (“ciò che l’architettura vuole essere…”) e che mi ha permesso sempre di lavorare per sottrazione e non per sovrapposizione di complessità.
Quando il linguaggio kahniano fu conosciuto e si diffuse tra gli studenti avvenne, infatti, una mutazione. L’attenzione su Kahn si spostò dagli edifici, che trasmettevano quei valori poetici che tanto mi affascinavano, alle sue ipotesi urbane, in sostanza agli schizzi per il Piano di Philadelphia, più trasposizione grafica di diagrammi di relazioni urbane che ipotesi di costruito.
Riguardavo pochi giorni fa il numero di “Rassegna di Architettura e Urbanistica che Franco Purini ha curato sulla “formazione degli architetti romani negli anni sessanta”: le immagini dei progetti di allora ci propongono quasi tutte una architettura irta di complessità e di sovrapposizioni tipica di quella stagione (secondi anni sessanta) che produrrà ancora a lungo “architetture di carta”.
Questa ricerca su di un Kahn “urbano” filtrato attraverso la “complessità” quaroniana produceva intricati tappeti planimetrici, ma anche proliferazione di complicati tralicci e violente volumetrie nude e ripetitive, riproponendo a mio giudizio in altre forme e su altra scala la disgregazione formale del tardo Moderno.
Esisteva secondo lei un “metodo” kahniano con una matrice di riproducibilità?
In “Perspecta 2” è riportato un concetto espresso da Kahn durante una revisione nel suo corso a Yale: “Non credo sia essenziale cominciare con la forma per produrre architettura. Comunque credo che sia una maniera naturale di cominciare. Credo che tutti noi cominciamo con schizzi intuitivi che esprimono la nostra essenza. Io so che l’idea per un design mi viene improvvisamente. Se il concetto è abbastanza chiaro, il design viene poi da sé. Il nostro maggior problema è il cercare di eliminare completamente gli avanzi di un pensiero fatto di brandelli, che ci lascia solo con pezzetti da tramutare in design. Credo che l’atto sia simile a quello di piantare un seme: il concetto, ovvero il risultato finale è molto chiaro. Nell’avanzare e nello svilupparsi del tuo design, la forma deve rimanere forte, tanto da non essere distrutta.”. Ecco in questi due tempi, l’immagine della forma iniziale e il lavoro per “rivelarla” in tutta la sua chiarezza “eliminando gli avanzi di pensiero” consiste l’insegnamento kahniano, che non è mai stato un metodo univoco e semplicemente riproducibile.
Ma tutto questo all’inizio degli anni ’60 non lo sapevamo, il suo pensiero era, come ho detto, più immaginato sui suoi progetti che basata su testimonianze e forse era da parte nostra un parziale tradimento.
Posso quindi dire di quello che Kahn mi ha stimolato a capire nel mio fare architettura.
Nel punto estremo di crisi del Moderno nell’International Style venimmo dunque a conoscenza del rinnovamento kahniano. Piovve su un terreno fertile.
All’inizio ero affascinato soprattutto dal gioco geometrico – compositivo: Kahn manipolava poche forme semplici e le organizzava secondo schemi altrettanto semplici e fortemente centripeti Il suo procedimento sembrava mettere in sequenza una serie limitata e chiara di trasformazioni logico-geometriche. Questo coincideva con quanto derivavamo dall’insegnamento di Galvano Della Volpe la cui “Critica del gusto” era allora il nostro “livre de chevet”: Arte non è tanto un prodotto quanto uno strumento di conoscenza del mondo e la progettazione, cioè il fare Arte è di per sé indagine conoscitiva razionale che tende all’unità come accade per le Scienze e per la Morale. Il concetto di “ordine” (Order is/ Design is/ form making in order…..) e i progetti che lo illustravano erano per noi la traduzione disciplinare delle definizioni dellavolpiane della Poesia in generale. E vedevamo quasi un parallelo tra la battaglia del filosofo contro i postumi dell’idealismo, che ancora influenzavano almeno in Italia la cultura e la critica marxista in senso “contenutista”, e la nostra istanza di rifondazione disciplinare di là dalle ideologie del Movimento Moderno.
Cominciammo così a guardare indietro oltre il Moderno, a considerare tutte le astrazioni e le organizzazioni dell’intera storia dell’arte in senso “orizzontale”, idee presenti e operanti nel nostro contemporaneo.
Ci interessavamo a Ledoux e a Piranesi come e quanto alle avanguardie artistiche del ‘900 e sentivamo un’affinità con gli architetti del primo rinascimento che, rifondando l’architettura dopo il gotico si erano rivolti al mondo classico. In questo ci intrigava la lettura che ne dava Wittkover dei ”Princìpi architettonici dell’età dell’umanesimo”, edita in Italia nel 1964, specialmente nelle indagini sulle strutture centrali e sul problema della proporzione armonica.
Man mano che la ricerca del Gruppo procedeva da un progetto all’altro, le aggregazioni centrali e statiche vennero ben presto contraddette. Affiorò così la necessità di definire una complessa casistica di trasformazioni che furono prima stereometriche e in seguito proiettive: In questo distinguendoci nettamente dai procedimenti kahniani.
Come mai, sia Kahn che Muratori, pur avendo ragionato sull’eredità della storia, hanno avuto in Italia una fortuna tanto diversa?
Ho progettato anch’io, nell’ultimo corso da lui tenuto, come tanti e controvoglia, una “Cappella in muratura a pianta centrale”. Non ho provato mai alcun interesse per le radici filosofiche del pensiero di Muratori, né voglio entrare ora in questo campo. Mi sembrava anacronistico che la relazione con la Storia fosse per lui definita attraverso gli aspetti più legati ai mutamenti socioeconomici e all’uso materiale dell’architettura: le ossature costruttive, le tipologie e i tessuti della città, e così via.
Il Palazzo della Democrazia Cristiana all’EUR si pone come attualizzazione del tipo “palazzo romano del ‘500” organismo che si definisce nelle sue invarianti sovrastoriche. Con esiti di raffinato storicismo, di restaurazione delle forme e non di innovazione.
Nel guardare alla storia, Kahn non segue classificazioni morfologiche date, ma percorre strade molto più astratte (“un uomo con un libro va verso la luce- così comincia una biblioteca….”; “l’auditorio è uno Stradivari o un orecchio….”) che gli permettono di abbandonarsi alla suggestione di forme ricordate.
La pianta della Villa Adriana non diventa la Villa del XX secolo, ma un campus di ricerca scientifica e il ponte Fabrizio disegnato da Piranesi si trasforma in un vuoto sui cilindri di Dakka Da qui altre forme s’innestano e s’ibridano trasformando profondamente l’organismo. I laboratori Salk non sono “romani” e Dakka non è “indiana”. Questo è il contrario di un atteggiamento storicista e porta all’innovazione, non alla restaurazione delle forme.
La Biennale del 1980 intitolata “Presenza del Passato”, alla quale il GRAU partecipò, proclamava la libertà per l’architettura di riutilizzare il linguaggio classico su scala civica; è corretto considerare Kahn, l’artefice di tale liberazione?
Nei venti anni che separano il 1960 dal l’’80 molte cose sono cambiate, nel GRAU e nell’ambiente romano.
Kakn ci sembrava procedere per quelle che chiamavamo “Astrazioni determinate”, ancora una volta definite per primo da Della Volpe e da noi ridefinite all’interno del linguaggio architettonico. Astrazioni, immagini o figure non desunte tout court dal patrimonio storico delle forme ma rese concetti (astratti dalla loro realtà), e che sono riportate in vita dalla necessità della realtà attuale, determinate dalla pregnanza o “necessità” rispetto al mio momento storico. Kahn non ha mai usato un capitello ma ha sempre lavorato su schemi “antichi” e su proporzioni “classiche”. Per questo egli è ben lontano dal poter essere considerato un precursore dell’architettura postmoderna, la quale, pur nella varietà delle esperienze, si qualificava attraverso citazioni letterali di elementi stilistici classici. In questo senso il postmoderno è un movimento che si qualifica nello stile, l’ultima avanguardia stilistica del ‘900.
Ma in quanto reazione al disfacimento del Moderno quel momento dell’architettura ha reintrodotto alcune tematiche che erano state completamente rimosse. Il Postmoderno, nella sua migliore interpretazione, ripropone quello che molti anni prima i pittori della Pop Art avevano additato: la figura reale contro la sua astrazione, la forma nella sua concretezza, non più modello da rappresentare come intendevano i classici ma citazione, immagine-simbolo su cui s’interviene deformandola, scalandola, trasferendola in altri contesti e media. Questo è per me l’apporto più fecondo del postmoderno, la voglia di rappresentare figure, di là dagli eccessi nelle citazioni “letterali” (o letterarie?) che ne hanno determinato la fine repentina e la conseguente totale rimozione.
A Venezia, nel coro assai vario della Strada Novissima, la facciata GRAU rappresentava un modo di rappresentare la crisi in una immagine di forte iconicità: un colombario tardo imperiale realizzato però in forma scarna e diagrammatica che quasi rinunciava alla comunicazione. A “narrare” non era l’Architettura, morta e in attesa di resurrezione, ma la Scultura delle urne cinerarie allineate sul fronte e la Pittura all’interno, che rovesciava in senso realista la metafora dell’albero di Mondrian.
C’è una suggestione illuminista all’interno dei progetti del GRAU?
Nel senso di un’influenza diretta dell’architettura di Ledoux e Boullée sulle nostre opere essa fu limitata e passeggera. C’era un’assonanza tra i materiali della progettazione (volumi geometrici semplici, con forti scarti di scala, gerarchie ben definite tra le parti, ecc) ma la nostra ricerca andava in una direzione opposta. I nostri progetti volevano essere soprattutto dialettici, in cui ogni tensione conteneva e voleva essere definita dal suo opposto.
Se invece ci riferiamo a un “atteggiamento” illuminista, orientato all’attività artistica come conoscenza, alla volontà di ridefinire su nuove basi la disciplina e alla sua comunicabilità con mezzi razionali, ebbene sì ci sentivamo illuministi a pieno titolo.
Eravamo marxisti che discutevano i “sacri testi” nella lettura non troppo ortodossa che ne davano il Della Volpe di “Rousseau e Marx” e il Colletti della introduzione a “Per la critica dell’economia politica” e questo influenzava fortemente non solo le nostre convinzioni ma anche e soprattutto la nostra condizione umana e professionale.
Progettavamo in piccoli sottogruppi di 2-4 persone che periodicamente sottoponevano i loro risultati all’assemblea del GRAU, che diventava così l’autore del progetto; dividevamo in parti uguali spese e ricavi, alcuni di noi sognavano di fondare una “Comune” dove vivere insieme. Soprattutto discutevamo di politica culturale e di ruolo disciplinare, d’innovazione dei linguaggi artistici e di poetiche, producendo una grande quantità di documenti interni (che mi piacerebbe oggi, dopo 50 anni, pubblicare). Discutevamo ininterrottamente, con la fiducia di poter comunicare razionalmente ogni idea e con il senso ch tutto, nel momento che entrava in circolo tra di noi, diventasse nostro patrimonio comune, trasmissibile a sua volta all’esterno. Questa era la nostra fiducia illuminista.
Quale era il contesto nel quale il GRAU si inseriva?
Fin dalla prima forma di unione, intorno al 1960, il Gruppo ebbe una forte connotazione politica di sinistra. Alcuni di noi (Anselmi, Pierluisi e Parlato, che ben presto si staccò dal gruppo) erano già iscritti al Partito Comunista. Gli altri si avvicinarono sporadicamente al PCI, del quale tutti condividevamo la posizione nel quadro della politica italiana, ma dalla cui linea ben presto riconoscemmo alcune differenze sostanziali.
Consideravamo, in particolare, fortemente riduttivo il ruolo che il Partito assegnava agli intellettuali e agli artisti, strumenti al servizio della classe operaia e i problemi dell’architettura sociale e del realismo socialista, cui peraltro da bravi compagni davamo il nostro contributo di minoranza, ci andavano stretti. I nostri rapporti con la Federazione Romana e con la Camera del Lavoro, a parte qualche profonda amicizia personale, produssero alcuni documenti ma anche ci fruttarono continue frustrazioni.
Alla fine degli anni ’60 la nostra autonomia dal PCI era completa e in molti trovammo una collocazione in vari gruppi extraparlamentari: Servire il Popolo, Marxisti-leninisti, Lotta Continua. alcuni accantonando per lungo tempo la ricerca disciplinare e la professione, altri cercando una convivenza difficile tra politica e architettura. Infatti, anche in questa stagione l’impegno nel campo disciplinare si scontrò ben presto contro la natura movimentista di quelle formazioni.
Un episodio che mi fa, a distanza di decenni, ancora sorridere: nel 1969 mettemmo a disposizione del Movimento uno spazio espositivo e d’incontro, la “Galleria Tor Margana”, che ebbe però breve vita: di fatto gli studenti in rivolta che ospitavamo e vi si riunivano in interminabili assemblee discutevano di organizzazione, rifiutavano ogni ampliamento su temi di politica culturale e di ricerca disciplinare e riempivano di graffiti i bei disegni che esponevamo.
Attraverso quali strumenti il GRAU, oltre ai progetti, esprimeva la sua posizione culturale?
Eravamo “duri e puri”: Rifiutavamo l’inserimento nelle strutture universitarie e quando Libera, chiamato a insegnare a Roma dopo la rivolta anti Muratori, di cui peraltro eravamo stati tra i protagonisti, venne al nostro Studio per proporci un impegno quali suoi assistenti di corso, ottenne, con suo stupore, un netto rifiuto. Solo alcuni di noi si rivolsero molti anni dopo, non prima del ‘75 all’insegnamento universitario (Sandro Anselmi, Franco Pierluisi e Massimo Martini nelle università francesi o italiane, io stesso, dopo il 1980 in quelle statunitensi).
Nel 1969 pubblicammo in manifesto, un “libro bianco” che riassumeva le nostre convinzioni sul ruolo degli intellettuali, sull’autonomia della professione, della Cultura e delle Arti, ecc., manifesto che fu sottoscritto da un gran numero dei giovani architetti; Eravamo gelosi della nostra autonomia e questo si rifletteva per converso in un rifiuto che la cultura e l’editoria ufficiali della Sinistra nutrivano nei nostri confronti: alcuni di noi pubblicarono saggi o recensioni in collaborazioni che ben presto si esaurirono.
Per contro dal 1960 alla prima metà degli anni settanta lo Studio è stato il luogo non solo fisico dove molti architetti della nostra generazione e di quella successiva si riunivano e scambiavano esperienze e idee (dello Studio fecero parte per brevi periodi Parlato, Sciarretta, Ciucci, Severati, De Sanctis, De Giorgi, Bordini e altri, mentre erano di casa Nicolini, Cellini, D’Amato, Cecchini, Cagnoni, Latour, Moretti, Silipo e molissimi altri.).