Roma mi ha insegnato.
Intervista pubblicata in:”Roma, New York, Mosca” a cura di A. Latour, Edizioni Kappa, Roma – 1993
Mi è impossibile separare il mio modo di considerare l’Architettura dal fatto che ho sempre vissuto e lavorato in questa città: ho la sensazione che la Roma storica mi abbia fornito molte figure di pensiero per organizzare il mio giudizio sul linguaggio architettonico contemporaneo e per dar forma alla mia stessa ricerca progettuale. È un rapporto di influenza costante e in continua evoluzione, come mi accorgo ogni volta che, presentando la città ai nuovi studenti architetti di Temple University all’inizio del loro semestre di studio con me, l’analisi si è spostata su nuovi temi.
Parlare quindi dei caratteri costanti della struttura urbana e della architettura di Roma è per me percorrere le figura poetiche che all’interno delle tematiche compositive contemporanee io privilegio.
Partiamo da un dato fondamentale della storia della Città: alla fine del mondo antico la metropoli imperiale si è contratta a poche decine di migliaia di abitanti, prosciugandosi come per una marea che lascia sulla spiaggia enormi relitti costruiti. Il loro spaesamento nell’area disabitata e rinselvatichita li rende “naturali” come delle strane preesistenze geologiche.
La «naturalizzazione» dell’architettura è un processo a ritroso rispetto a quello messo in atto dagli antichi costruttori. L’Arce ritorna ad essere colle, il Circo Massimo è riassorbito nella valle che lo ha generato, la Nave carica di templi nel mezzo del fiume ritorna ad essere Isola quale è stata in epoche remote. Ma non solo: il teatro in rovina diviene la rupe sul quale gli Orsini costruiscono la loro fortezza, mentre gli archi che lo sostengono sono abitati come le grotte del vicino monte Tarpeo.
Lungo il corso della storia della città, Natura ed Architettura si scambieranno spesso i ruoli, o meglio: elementi di mimesi naturale riaffioreranno spesso nella cultura figurativa di Roma. Esempi: il bugnato bramantesco del Palazzo dei Tribunali, l’onda pietrificata del Porto di Ripetta di Alessandro Specchi, le iperboli spaziali della grafica piranesiana.
Il processo ora descritto esalta una caratteristica già presente. La complessa orografia del sito non ha mai permesso tracciati regolari estesi mentre la crescita antica per successive addizioni ha favorito rotazioni, fratture, discontinuità, in sostanza tracciati di debole organizzazione formale entro cui le individualità architettoniche, fortemente strutturate, assumevano la funzione di poli formali. La situazione «naturale» del “disabitato” entro le Mura fornisce la maglia che condizionerà ogni sviluppo futuro sia del tessuto urbano che delle singole architetture fino alla città odierna. Rotazioni e fratture in pianta, salti di scala e emersione di grandi episodi plastici da un tessuto non uniforme ma omogeneo: il panorama di Roma storica è segnato da una linea orizzontale continua – al di sopra cupole, pochi campanili e alcune grandi masse murarie che emergono con decisione, al di sotto una piastra incisa da strade e slarghi. E la divaricazione tra tessuto debole e architetture forti, con prevalenza di queste ultime in immagini chiuse, è effettiva anche quando la Città si sviluppa per tracciati: la Roma di Sisto V è riassunta maggiormente dai traguardi e dalla concretezza plastica dei fondali che dalla costanza ordinatrice delle sezioni stradali.
Ora questo quadro può essere ulteriormente scomposto in alcune organizzazioni formali elementari, vere e proprie figure retoriche che per me sono state delle tracce interpretative feconde nella mutazione linguistica di questi anni. Mi riferisco alla figura del rudere, del frammento, dell’inclusione.
Il rudere è figura retorica risultante da contrazione; mostra una parte superstite e fa riferimento ad un intero che non esiste più. Immagine ambigua che ne può generare altre; tutte possibili e tutte arbitrarie, come le architetture che popolano il Campo Marzio di Piranesi.
A volte il rudere mostra, dopo il crollo di una parte dell’edificio, una sezione di esso e ripropone l’antico paradosso della simultaneità visiva interno – esterno; a volte esso prende la forma di spiccato e anela l’architettura nella sua astrazione bidimensionale, una pianta stesa ai nostri piedi come un tappeto. Altre volte è semplice scheletro, fibra della struttura messa a nudo nella propria essenzialità. Infine esso può essere frammento, figura che ha perso la memoria della propria origine, pura testimonianza di un intero non più immaginabile e perciò disponibile per nuove avventure semantiche.
Il rudere (e il frammento) è sempre un’astrazione resa plasticamente visibile: architettura ridotta a pura immagine, spogliata di uso e di significati che rimandino ad altro, astorica e perciò riutilizzabile in nuove associazioni.
Spesso di fatto sulla figura del rudere può formarsi la figura dell’inclusione che non è altro che un rudere inglobato in un nuovo contesto. Accostato a diversi significati, esso genera per contiguità nuove metafore entro un nuovo significato globale che molto spesso è assai lontano da quello originario.
L’ambiguità di immagini che nel rudere era solo adombrata è ora mostrata e con una certa intenzionalità. Tra tutte le immagini possibili del rudere ne prevalgono alcune e queste si confrontano all’interno del nuovo sistema. Elementi strutturali antichi, colonne e capitelli sono inglobati in un muro medioevale, ridotti a pura decorazione superficiale, paradossali e fuori scala. Sul Mausoleo di Adriano nasce una fortezza merlata, il Castel Sant’Angelo, e su questo un palazzetto di città.
A ben vedere nella figura dell’inclusione possiamo leggere il materializzarsi del ciclo stesso di uso delle forme nella città. Uso (senso definito), oblio (perdita di senso) – riutilizzazione in nuovo contesto e nuovo senso; quel ciclo che è la molla e la giustificazione delle modificazioni di ogni linguaggio.
Camillo Sitte, a sostegno della propria avversione a monumenti posti al centro delle piazze urbane, cita la regola degli antichi, riportata da Vitruvio: “Il centro della piazza per li atleti, i bordi per le statue (che ne celebrano le gesta)”. E’ un’immagine che mi ha sempre colpito, anche se non ho mai saputo cosa farne. Vi è uno spazio dell’azione, dell’attualità (della Vita) che sfuma in uno spazio della rappresentazione (dell’Arte), della memoria e della testimonianza. Nel passo vitruviano c’è una valenza che Sitte non è interessato a cogliere: tra i due spazi è suggerito un rapporto diretto di proiezione fisica e temporale: la statua del vincitore dell’anno prece¬dente rispecchia dal bordo del Foro l’atleta che viene ora laureato campione e ne è rispecchiata. L’evento e il suo simulacro si influenzano reciprocamente: l’Attore modifica con i propri gesti lo spazio della Scena ed è influenzato da essa, poiché la Scena è l’ombra stessa dell’Attore proiettata sul fondale.
A questo punto è possibile fantasticare di una catena di rispecchiamenti, trasformazioni-astrazioni che la figura umana (individuale e sociale) subisce nella piazza-teatro, trapassando nella Statua, nella Colonna, nell’Ordine, nell’Edificio, nella Città … fino a costruire una fantastica neo-neoplatonica genesi antropomorfica dell’Architettura e dei suoi archetipi. Sarebbe divertente anche se un po’ inattuale.
Nel mondo classico lo spazio che l’uomo percorre e sperimenta con il proprio corpo è chiuso verso l’alto dall’ultima riga della cornice dell’Ordine. Al di sopra di essa vi è lo spazio della rappresentazione della Natura nella sua globalità, riservato agli Dei ed ai miti. La cupola è lo spazio simmetrico al cavo della piazza rispetto a quella riga, luogo di incontro e di coincidenza di una doppia proiezione: dall’esterno dello spazio infinito nel Cosmo e dall’interno dello spazio mentale della fantasia ordinatrice. Questa distinzione/opposizione mantiene il suo senso di descrizione dell’universo sino alle soglie del Moderno.
Poi Boullèe disegna un edificio a forma di sfera e ciò significa che il mondo non si fonda più su quella distinzione. Nella astrazione della geometria i due spazi si sovrappongono e coincidono in quanto quello dell’esperienza fisica riassorbe quello delle proiezioni: i solidi euclidei possono finalmente scendere sulla terra, farsi essi stessi architettura, non più antropomorfa ma, se così si può dire, “psicomorfa”..
Di quel che succede dopo sappiamo tutto: la lenta definizione della nuova geometria, l’ampliamento della sperimentazione morfologica (di cui la forma-grattacielo è forse il prodotto più originale e più fecondo di nuovi significati nella città), la successiva manipolazione sulla geometria da parte delle avanguardie artistiche …, tutto è stato raccolto e catalogato dagli storici del Movimento Moderno. Oggi, finalmente spenti i fuochi polemici attorno alle innovazioni globali, siamo più attenti ai fili sotterranei di continuità che hanno attraversato quelle mutazioni. Nel frattempo sul campo delle forme storiche si è aggiunto un altro strato di rovine.
Le rovine del Moderno, figure parziali e frammenti attendono di essere riutilizzate in nuovi contesti. Ora vediamo con maggiore chiarezza di dieci anni fa che le mutazioni di questo secolo, come sempre si vede a distanza, non hanno negato o completamente ribaltato gli assetti precedenti: li hanno semmai relativizzati e riassorbiti in un ambito più vasto. E non è forse questa la migliore condizione per porre in nuovi termini il problema della convivenza e del dialogo tra vecchio e nuovo nella Città?