Learning from Piazza Vittorio.
Inconscio e memoria di un rione.

Pubblicato in “ROMACENTRO. Esquilino. Storia, trasformazione, progetto” Fratelli Palombi Editore, Roma 1986

Parco centrale, il luogo della febbre urbana: l’inconscio della città.
La natura ordinata e snaturalizzata nella collezione.
Il presente e i frammenti del passato. Oblio e perversione del tempo.
Aggregazione e disaggregazione. Amore e rivolta. Violenza.”

F. Rella

La frontiera esquilina

Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano ma una entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità,dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza é scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuino a sussistere le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si ergerebbero nella loro antica imponenza, che Castel Sant Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio debba venir demolito, il Tempio di Giove Capitolino, e non solo nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato da antefisse fittili” . Nel 1929 Freud si serviva della ben nota similitudine urbana per spiegare la conservazione entro la sfera psichica delle fasi passate dell’individuo. Oggi il nostro atteggiamento nei confronti della storia urbana ci permette di ribaltare quella similitudine: come gli individui, i luoghi abitati dagli uomini possiedono questa sorta di contemporaneità psichica.

Esiste un inconscio dei siti, deposito delle passate forme di esistenza e queste vivono una vita sotterranea, talché ”ad evocare l’una o l’altra veduta basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore . E, come avviene nella mente dell’individuo, tali forme, da tempo lentamente cancellate o violentemente rimosse, riaffiorano nell’attualità quasi a voler stabilire, con la loro continuità formale, una straordinaria sfida al tempo.

Nell’area Esquilina compresa tra gli antichi tracciati dell’Agger delle Mura Aureliane, tra la Porta Esquilina del primo e Tiburtina , Prenestina e Asinaria del secondo, l’inconscio del sito ha generato lungo ventiquattro secoli una serie di figure che possono ricondursi a due matrici: il Mercato e il Giardino. In questo secolo, in seguito alla traumatica trasformazione postunitaria della zona, esse sono riaffiorate e convivono inconciliabili, contendendosi lo stesso spazio fisico, paradossalmente compresenti come nella similitudine freudiana, nella stessa area di Piazza Vittorio.

Strano destino questo dell’area Esquilina: mai prima di questo secolo defi¬nitivamente assurta al ruolo di ”inquilina”  nell’assetto urbano malgrado trascorsi densi e popolosi, ha sempre svolto il ruolo di frontiera mobile e permeabile tra l’Urbe e il suo esterno, prossimo e rurale nel passato, remoto ad abbracciare l’area mediterranea oggi, dopo gli anni della trasformazione metropolitana.

La continuità di precedenti memorie si verifica a dispetto dei massicci interventi urbanistici che due volte stravolsero l’aspetto fisico dei luoghi mutandone la stessa orografia: dal rinterro iniziato da Mecenate per guadagnare ad area residenziale l’orrendo ”campo biancheggiante di ossa” della sepoltura comune che faceva rabbrividire Orazio a passeggio sui nuovi giardini dell’Agger , allo sterro volto agli stessi fini in ottemperanza al Piano del cavalier Viviani -tre metri di terra mista a marmi scolpiti e cocci-, quando il Parker metteva in posa cupi manovali in gilé e paglietta spicconanti muri laterizi,cunicoli di necropoli e basolati viari entro desolati crateri lunari.

Il mercato

Frontiera mobile e permeabile, si diceva, contesa a lungo nei secoli tra città e campagna e perciò luogo tradizionalmente marginale di scambio tra i due mondi. Qui arrivano e vengono distribuite alla città le acque tiburtine, albane e sublacensi secondo quel complesso sistema di acquedotti che in epoca imperiale aveva nella Porta Praenestina il suo terminale Qui arrivano prodotti agricoli, carni destinate al commercio nel Macellum Liviae, oppure, secoli più tardi, cibarie e vino che i mulattieri, la cui confraternita aveva sede nella chiesa di S. Antonio Abate, portavano dalle campagne albane e prenestine e che venivano vendute fin sotto S. Maria Maggiore ai pellegrni in virtù di una esenzione daziaria concessa da Nicolò V.

Di converso l’afflusso di gente dal contado incide profondamente sul carattere della zona, dove fin dal XIII secolo sorgono chiese ed ospedali connessi a culti e servizi tipici del mondo rurale: nella chiesa di S. Vito la ”pietra scellerata” guariva dal morso del cane idrofobo , nella cappella oggi sparita di S. Giuliano alli Trofei veniva distribuita acqua benedetta contro le febbri estive, mentre nel vicino ospedale di S. Andrea, poi di S. Antonio Abate, fin dal 1258 si curava l’herpes, il ”fuoco di S. Antonio” appunto, dei contadini . Chissà se è cessato negli ultimissimi anni il rito annuale della benedizione di cavalli e animali davanti al portico di S. Eusebio?

Quella tendenza a fare dell’Esquilino il filtro tra la città e il suo esterno, che sembrava sopita durante gli ultimi secoli nel sonno delle ville suburbane, riprende impetuosamente nella Città postunitaria con la costruzione della stazione ferroviaria a Termini. Ora é la grande massa dei braccianti che si trasformano in operai edili nei cantieri dei nuovi insediamenti ; un secolo più tardi il bacino di raccolta si estenderà a dimensioni mediterranee e poi mondiali e la zona tra Termini e Piazza Vittorio fornirà a molti immigrati il primo alloggio e la prima precaria occupazione.

L’inconscio popolaresco e burino riappare ben presto, appena gli ultimi postumi di décor umbertino, promossi fino all’inizio del fascismo, vengono travolti dall’onda dell’immigrazione e il più grande mercato alimentare della Città si insedia spontaneamente attorno al giardino di Piazza Vittorio.

Gadda ambienta il “Pasticciaccio nel 1927: nel romanzo il mercato é ancora una volta (forse l’ultima) scenario di raccordo tra il mondo cittadino, i questurini di S. Stefano del Cacco,i borghesi di via Merulana, i preti dei Santi Quattro, i pescecani emergenti di via Nicotera ai Prati, e quello suburbano e contadino dei Retalli Enea fu Anchise dei Due Santi, del Torraccio, delle baracche di via Populonia. Nell’effimero accavallarsi di colori, movimenti e voci il mercato é l’unico ambiente dove é dato ascoltare il “prestissimo” della vita urbana, a dispetto di quella Roma altrove così ariosa, vasta e vuota. Protagoniste, le massaie, “polponi semoventi, esse ambulavano a fatica da uno spaccio e da un ombrellaccio al successivo, dai sèlleri al fichi secchi: si rivolvévano, si strofinavano i rispettivi gregori l’uno all’altro, annaspavano ad aprirsi il passo, con borse ricolme soffocavano, boccheggiavano, grasse carpie in una piscina-trappola dove l’acqua a poco a poco decèda, stipate, strizzate, intrappolate a vite con tutta la lor ciccia nei vortici di quella gran fiera magnàra.”

Il Giardino

L’urbano si specchia nel naturale nella figura del giardino: nell’Esquilino, sede di scambi materiali tra città e campagna ma anche di rimescolamento culturale dei due luoghi, l’immaginario urbano costruì nei giardini una serie di modelli intellettualizzati del rapporto cultura-natura. Le fonti pittoriche più che i reperti archeologici ci restituiscono l’aspetto complessivo dei giardini imperiali che si stabilirono sul colle dopo il rinterro del sepolcreto iniziato da Augusto e Mecenate.

La composizione del paesaggio, l’ars topiaria, obbedisce al gusto letterario del poeta idillico e del pittore che descrive la campagna come sede di miti. Una campagna popolata da dei e da pastori, costellata di boschetti, fonti, grotte e ruscelli, ma anche di tempietti, edicole e santuari rustici, tombe e statue. Entro tale gusto i giardini si organizzano autonomamente attorno a edifici che molto spesso anziché nuclei funzionali e abitativi veri e propri sono riproduzioni di altre note architetture, reali o ideali, obbedendo anch’essi al gusto letterario della rappresentazione per “tipi”: i1 Ginnasio, l’Auditorio, lo Stadio, il Ninfeo.  L’elemento mitologico, letterario più che religioso, riunifica le forme garantendo omogeneità figurativa all’impianto scenografico in un complesso gioco di rimandi tra materiali e tecniche: il giardinaggio imita la statuaria e l’architettura mediante alberi potati secondo figure o geometrie, la pittura parietale mima il paesaggio e l’architettura mentre questa a sua volta si confonde nella natura in grotte e rocailles, e comunque, frammentata in porticati, balaustre, pergole e piscine, si inserisce mimeticamente nel continuum naturale.

Il giardino romano pone tutti i termini della grande tradizione occidentale in forma per noi attualissima: in particolare introduce nella tematica del giardino il confronto non tra due termini reali, città-storia contro campagna-natura, ma tra le loro immagini intellettuali.

Quando il cardinal Peretti si stabilisce con la gente della sua famiglia a fianco di S. Maria Maggiore, il luogo non ha più memoria degli splendori antichi: egli acquista aride vigne costellate di ruderi. La villa Montalto, che Papa Sisto fornisce di agevoli accessi e di abbondante acqua restaurando un antico acquedotto, diviene nei cinque anni del pontificato la più vasta e splendida tenuta all’interno delle Mura  Essa coniuga le caratteristiche di azienda agricola, parco, giardino; vi trovano posto un casino che ospita una ricca collezione antiquaria e padiglioni per una modernissima area fieristica (la fiera di Farfa, ancora un mercato!) poi trasformati in laboratori artigiani. Si tratta di un insieme enorme e complesso di funzioni diverse, una forma di universo chiuso e perfetto nel quale il Papa aveva riversato assieme al proprio senso pratico di solido provinciale la propria cultura totalizzante di radici tardo umanistiche.

Il giardino testimonia di quanto rimane dell’utopia rinascimentale alla fine del cinquecento: un luogo di natura ancora ordinato e razionalizzato con una certa solennità, ma nel quale i singoli episodi -peschiera, parterres, belvedere e fontane- cominciano ad isolarsi in cellule autonome.

Le ville  che nei secoli successivi sostituiscono orti e vigne attorno a Villa Montalto ne riproducono, ridotto e semplificato, il tipo: ricevendo i giardini dignità particolare dalla enorme quantità di materiale antiquario rinvenuto in situ, mentre le aziende agricole sono continue con la Campagna che si estende al di là delle Mura.
L’unica traccia superstite oggi é il nucleo di Villa Wolkonsky; la distruzione inizia con l’insediarsi della stazione ferroviaria e prosegue negli anni postunitari:nel 1876 l’area é totalmente spianata e iniziano i cantieri.

La prima planimetria del nuovo quartiere prodotta dalla ”Commissione Camporese”  non prevede un unico giardino nella nuova enorme piazza; questa rimarrà per una quindicina di anni schematicamente attraversata dai due assi stradali, al cui incrocio è indicato uno spazio circolare, che si conserverà nel disegno del successivo giardino. Nei quattro spazi (verdi?)sono conservati non solo il Ninfeo Severiano, responsabile della localizzazione della Piazza, ma anche il rudere detto ”Casa Tonda” e la chiesetta di S. Giuliano ”alli Trofei” con l nucleo di case attorno, quinta simmetrica al Ninfeo rispetto al grande asse Sistino che attraversa la Piazza. Questi ultimi manufatti spariranno ben presto sotto il piccone ma il disegno ”provvisorio” con i due assi rimarrà a lungo nelle piante della Città, a disposizione per progetti di edifici pubblici mai realizzati .

La dimensione e l’importanza di tali progetti é significativamente decrescente man mano che le funzioni pubbliche si insediano attorno al nucleo tradizionale della Città : dal Monumento a Re Vittorio all’Archivio di Stato, ad un Teatro Lirico Nazionale, e così via. Gli edifici erano pensati al centro della piazza circondati da aiuole e alberi: come é accaduto all’Acquario Comunale nella vicina piazza M. Fanti.

Attorno al ’90 il quartiere ha definitivamente abbandonato ogni sogno di direzionalità e si é consolidato nella sua sonnolenta natura residenziale; la Piazza di conseguenza viene ridisegnata in un unico giardino circondato da una cancellata continua che lo isola dalla sede stradale, per questo riferibile agli esempi inglesi di square . In realtà l’ascendenza formale va ricercata in coevi modelli parigini, alla serie di giardini che l’Alphand va realizzandoin quegli anni, tra i quali il parco delle Buttes Chaumont é l’esempio insieme più noto e più elaborato.

Ora il giardino non é più il gran teatro della natura; oppure, non potendo evitare di esserlo, é ridotto ai gusti e alle necessità del passante distratto o dell’annoiato passeggiatore. Piante esotiche e episodi pittoreschi,la leggera curva dei sentieri nei quali non ci si può perdere, padiglioni e choschi disseminati tra il verde, ma anche regolarità di scala e uniformità conferiscono al giardino il carattere di civile utilità rassicurante i cittadini che in esso ritemprano le forze nel cosiddetto ”tempo libero”.

Certamente piazza Vittorio non é paragonabile alle Buttes Chaumont, ma un Aragon romano avrebbe potuto perdercisi in una di quelle vertiginose scorribande notturne alla ricerca di un senso in questo oscuro specchio della metropoli: “Ma il popolo dei passanti e di chi passeggia, nelle grandi città dove esso si muove, e muore, non ha la scelta della sua nostalgia; nulla gli é offerto se non quei mosaici di fiori e di prato o quelle riduzioni arbitrarie della natura,che costituiscono i due tipi di paradiso corrente: esso preferisce queste ultime, perché é ancora ubriaco dell’alcool romantico Si getta in quest’illusione, dispostissimo a recitare alle Buttes Chaumont ”il lago” di Lamartine, tanto carino in musica. Una volta lanciato, il suo spirito non si accontenta più di trasformare il rumore dei torrenti: la ferrovia della “cintura” é subito lì, e l’ansimare delle strade incombe all’orizzonte. Grandi lampi freddi sovrastano ogni macchinario moderno de assoggetta a sé, e quindi comprende, persino le rocce, le piante vivaci e i ruscelli domati. E l’uomo in questo luogo di confusione ritrova, con terrore, l’impronta mostruosa del suo corpo, e la sua faccia scavata” .

La figura del giardino ha ora perso la sua tradizionale autonomia ed é ridotta a pura proiezione della città desiderante. Desiderio di conservazione, nostalgia dell’irrimediabilmente perduto. Il laghetto, il boschetto,la scogliera di tufi: oggetti in miniatura, classificati come reperti o disordinati nel massimo dell’artificio innaturale, sono il fondale entro il quale vecchi, bambini e coppie replicano un rituale di libertà e di amore.

Oggi il giardino di piazza Vittorio non é più neppur questo. Spogliato per far cannoni della cancellata che lo difendeva, abbandonato alla pressione soffocante del mercato, é ora terreno incolto dietro la barriera continua dei chioschi fissi e delle bancarelle. Al suo interno sono apparsi negli ultimissimi anni alcuni ruderi moderni, resti urbani che, rifiutati dalla città, si sono localizzati in questa area di frontiera.

Negli anni ’70 la linea della nuova Metropolitana necessita lungo il percorso di un centro operativo e di una sottostazione di trasformazione elettrica. Quale migliore area che questa terra di nessuno, retro e discarica di un mercato? Si scava il quadrante sudorientale del giardino e si ricava all’interno di esso un vasto piazzale asfaltato di parcheggio dal quale emergono i vo lumi tecnici delle attrezzature sotterranee. Il tutto é circondato da una palizzata di tubi metallici dipinti in verde il cui andamento sinuoso (”naturalistico”) dichiara francamente il senso di colpa di tale artificioso innesto.

Ultimo nato in questo rifiorire di nuovi ruderi uno chalet di generose proporzioni posto a pendant del Ninfeo ospita i gabinetti necessari alla cospicua popolazione del mercato.
Qui il ciclo si chiude. L’area non più frontiera,é stata completamente riassorbita nella natura, quella di oggi, si intende. Fatta di prati e cartacce, alberi e rifiuti.

Restauro e progetto

Ma gli strati precedenti malgrado le devastazioni riaffiorano debolmente attraverso quelli successivi. E’ possibile renderli chiari e parlanti, riconsegnarli all’immagine complessiva della città, rivelarli anche all’occhio del cittadino e del passante?
A risolvere il compito non sono certo d’aiuto i tradizionali strumenti del restauro architettonico o più in generale l’armamentario di cultura storicista e moderna , indiretta responsabile (ma quanto indirettamente?) dei guasti di questo secolo. Occorre invece ripartire da un nuovo punto. La teoria del restauro architettonico e urbano ha sempre oscillato tra due poli non riuscendo mai a comporne i termini: essa tende da una parte a “.restituire l’opera al suo mondo storicamente determinato, ricollocandola idealmente nell’ ambiente in cui é sorta e considerandone i rapporti con le cultura e i gusti del tempo, e dall’altra operare su di essa per renderla nuovamente viva e attuale quale parte valida e integrante del mondo moderno ”.

In sostanza la preesistenza urbana presenta due immagini opposte ma strettamente interrelate. La prima immagine deriva all’oggetto urbano dall’essere ”Monumentum” o testo storico, capace cioè di rendere testimonianza di una sezione del passato; come tale in relazione reale o virtuale con gli oggetti ad esso contemporanei, fisicamente compresenti o no, privo invece di rapporti con il contesto attuale. Allo stato puro questa immagine vive soltanto nei testi di archeologia o di storia poiché nella realtà ogni preesistenza nella città non é quel cristallino testo scientifico che gli specialisti vorrebbero incontrare; essa partecipa più o meno alla figura romantica del rudere o del complicato palinsesto di contaminazioni storiche.

La cultura del restauro, quale si é formata dalla fine del settecento ad oggi, ha concentrato la sua attenzione su questa immagine e oggi possediamo una ricca e articolata casistica e validi criteri di intervento; é rimasta per troppo tempo scoperta, casomai, l’attenzione per assetti e tessuti urbani, per tracciati viari ed episodi minori, spesso in passato sacrificati al fine di isolare il monumento considerato significativo, secondo una pratica antiquaria di radice empirica e nutrita della dominante critica d’arte idealistica.

La seconda immagine tende a restituire l’attualità dell’oggetto storico, che se pure viene dal passato é fisicamente presente e ,lo si voglia o no, dialoga con gli oggetti che gli sono prossimi, li modifica e ne é modificata. Solo per le preesistenze storiche il cui uso e inserimento si é consolidato con continuità prima dell’ottocento tale immagine é evidente e sensibile. Dove invece quelle si sono scontrate con la città moderna, antico entro la città ottocentesca, ma persino ottocento entro un tessuto di questo secolo, hanno costituito un ”inutile” ingombro allo sviluppo da eliminare, ove non sia stata loro riconosciuta particolare dignità storica o artistica, oppure da isolare, imbalsamare e mettere tra parentesi. Esistono forse a Roma sistemazioni moderne di ruderi antichi ove questi non siano isolati dalla citta entro la loro patetica “cornice di verde”?

Nell’incapacità di porre sullo stesso piano e conciliare le due immagini si dimostra il tragico fallimento della cultura urbana modernista quando ha rifiutato ogni continuità con la Storia. Rivelare l’immagine dell’attualità delle preesistenze assieme a quella della distanza storica é il compito di “restauro urbano” che attende quanti sono coscienti di quel fallimento.

Certamente in nome di una attualizzazione ad ogni costo (come si incontra in qualche caso recente, quasi un ritorno a Viollet le Duc) non vanno¬cancellate le conquiste che riguardano la fedeltà al testo quali sono chiaramente enunciate ad esempio nella Carta del Restauro 1931.

E’ necessario invece fare quanto non é stato mai fatto. Non solo restaurare le preesistenze, ma restaurare tra di esse e sul loro contorno, progettare quel campo fisico tra la città del passato e la città contemporanea che l’età- moderna ha. lasciato vuoto.
Attorno alle preesistenze, allo scopo di. estenderne il significato nel rispetto non mimetico di esse, si apre un lavoro di relazione tra antico e nuovo nel quale la ricerca di unità tra le parti é altrettanto importante quanto il riconoscimento e la messa in valore delle differenze. Sinteticamente: ad un ordine sintattico si affianca una organizzazione para tattica in modo tale che il disegno o progetto che permette di ricomporre elementi diacronici sia volto più a descrivere questi che a dimostrare un sistema dato una volta per tutte, come era in passato.

Tramontata nei fatti prima ancora che nelle idee l’utopia della città, organicamente funzionante secondo gerarchie, oggi guardiamo alla città delle differenze e dei frammenti. E’ quanto la sensibilità dei surrealisti Aragon e Breton aveva presentito e Benjamin ha acutamente sottolineato : la città come museo, teoria sterminata e senza ordine di oggetti ai quali occorre ridare un senso individuale e di relazione . E forse non sarà inutile andarsi a rivedere con i nostri occhi ormai disincantati le procedure dada e surrealiste del montaggio e del ready made. La vecchia ruota di bicicletta di Duchamp che deriva il proprio valore dalla sgabello-basamento sul quale é montata può insegnare ancora qualcosa? Simmetricamente oggi all’interno dell’istituzione museo guardiamo all’apparato espositivo con altrettanta attenzione che all’insieme stesso degli oggetti esposti: la loro classificazione storico scientifica non basta più se non interviene, conformandosi sopra di essa, uno scarto metaforico, ovvero artistico, che investa lo spazio che li contiene, la luce che li rivela, il supporto che sostiene il frammento o la teca che protegge i reperti.

Tutto questo ci fornisce le coordinate per ricollocarci entro l’insopprimibile bipolarità tra passato e presente, tra testo storico e sua immagine attuale, rompendo la muta durezza del primo ma spiazzando la facile sicurezza della seconda in una figura instabile, simulacro di qualcosa che non solo “può non essere mai esistito”, come piaceva a Viollet le Due affermare, ma sicuramente che può esistere solo oggi per la prima volta.

Ridisegnare la città fra e attorno alle preesistenze, si diceva. Ridisegnare le scarpate che dividono la quota archeologica dalla quota della Roma moderna come si progettano i basamenti delle sculture nei musei ( penso a certi impianti di Carlo Scarpa); ridisegnare l’”analogo”o il simulacro di un importante elemento urbano del passato ormai perso o illeggibile come Robert Venturi ha costruito nell’aria la inesistente casa di Benjamin Franklin a Philadelphia: tutto questo può rendere il senso di quel paradosso freudiano citato all’inizio, della cui vitale presenza nelle nostre città abbiamo sempre più bisogno.

Decostruzione e ricostruzione

Nell’area e persino entro il perimetro del giardino di piazza Vittorio convivono tracce e rovine di sistemi urbani del passato remoto o prossimo in un complicato palinsesto che pone di fronte, per così dire orizzontalmente, ogni elemento di esso.

L’Agger non interessa direttamente l’area se non per via del rinterro au¬gusteo di cui si é detto; né é possibile ricavarne un’immagine continua entro la scacchiera ottocentesca sebbene se ne conservino frammenti entro le piazze e incorporati nei muri delle case.

Il sistema degli acquedotti conserva il grande rudere laterizio del Ninfeo Severiano ma ha perso le arcate che portavano il canale di alimentazione dalla porta Tiburtina, ora visibili per un breve trattro nella piazza G. Pepe, mentre una recente ricognizione  ha confermato la presenza appena sotto il livello del giardino delle fondazioni della cosiddetta ”Casa Tonda”, più probabilmente una cisterna-fontana pertinente allo stesso sistema.

La rete viaria antica che partiva dal muro della Suburra e col Clivus Suburanus raggiungeva la porta Esquilina biforcando poco oltre in corrispondenza del Ninfeo  verso le porte Tiburtina e Praenestina (Maggiore) é ora conservato solo nel primo tratto, ma i fianchi dello stesso Ninfeo testimoniano la direzione delle due strade.

Nulla é rimasto della altimetria della zona quale si presentava prima degli sbancamenti postunitari se non un patetico cipresso su di una zolla sopraelevata, testimone della quota originariache conserva murata nel fianco la “Porta Magica” qui posta dopo la distruzione di villa Palombara; il complesso di S. Eusebio (chiesa, chiostro e giardino) é anch’esso memoria della orografia precedente: i tre metri di sterro sono ora superati dalla scalinata ottocentesca della chiesa.

L’asse S. Maria Maggiore – S. Croce in Gerusalemme, voluto da Sisto V, fornì l’orientamento ortogonale del piano del 1873, ma risulta riassorbito dalla; ripetizione delle strade, mentre l’antica biforcazione del Ninfeo é sparita fornendo però lo spunto nello stesso Piano al falso tridente sul lato meridionale della Piazza. Del resto, come si è visto il disegno di questa ha resistito per lungo tempo alla nuova organizzazione centrale, a testimonianza di quanto fosse forte l’immagine dell’asse Sistino anche dopo la nuova omogenea edificazione.

Sui ruderi contemporanei, Metropolitana e mercato, non occorre aggiungere altro se non che questa ultima struttura, seppure a malincuore, non può rientrare nell’inventario perché inconciliabile con le altre, e sarà trasferita in una sede più idonea. Se si pensa che un mercato é struttura che si riproduce ogni giorno, forse lo spostamento in un’area limitrofa non sarà troppo traumatico.

Accanto a tali reperti reali é da porre tutta la serie iconografica che descrive e decodifica la successione delle fasi storiche dell’area e anche, come nel caso della serie di incisioni Piranesiane del ”Castello dell’Acqua Giulia”, offrono una lettura tanto tendenziosa della Rovina, che ne forniscono di fatto una nuova e originale. E certamente la lettura ”archeologica” di Piranesi deve essere recepita quale antecedente di fortunato equilibrio tra decostruzione scientifica e costruzione artistica dell’immagine-simulacro della Rovina.
Il catalogare i frammenti con tutte le loro ambiguità porta a rompere unità fittizie che si sono stabilite nel tempo, escluderne alcune (come quella impossibile mercato-giardino) e scoprirne altre nascoste tra le pieghe dell’assetto attuale.

È possibile, come abbiamo fatto nella riprogettazione del giardino seguendo il filo delle vicende del sito, riproporre l’equilibrio tra spazio longitudinale e spazio centrale, così come é lecito scomporre il tracciato originale del giardino nei suoi elementi fondamentali, escluderne alcuni oggi anacronistici,e valorizzare quelli che possono essere ricomposti con gli altri resti. Non é più accettabile oggi l’unità che piaceva agli archeologi di fine secolo, del Ninfeo Romano rinchiuso nella pittoresca cornice di ciuffi di palme, né quella tollerata dai passati amministratori tra verde, impianti tecnici Metro e parcheggi asfaltati.

La costruzione di unità. parziali tra i frammenti ottenuti da tale decostruzione é stata graduale, come enunciano le successive versioni del : progetto, testimonianze negative dei troppi ”resti” che man mano abbiamo cercato di ridurre, muovendoci in precario equilibrio tra il sottolineare la eloquente specificità dei frammenti e il ricomporli parzialmente.

Così il rudere del Ninfeo riacquista il senso, solo metaforico, di Mostra d’Acqua mediante il sistema di fontane disposte lungo l’asse della piazza, simulacri del distrutto acquedotto di alimentazione, e grazie alla vasca arcuata, immagine a sua volta della ipotetica vasca che forse lo commentava verso la città. Lo stesso monumento riconquista la propria co1locazione planimetrica e altimetrica mediante i nuovi muri che lo fasciano sui lati seguendo gli antichi tracciati stradali e che, disegnati a immagine di strati geologici sotterranei, ricordano la originale linea di terra del Ninfeo. Questo infine riguadagna il proprio ruolo urbano per mezzo della nuova piazza semicircolare che tende a spingerlo fuori dal giardino ove si trova ora spaesato e farlo partecipe del costruito circostante.

La “Porta Magica” con il suo solitario cipresso-testimone genererà, attorno a sé un minuscolo “giardino magico”, spazio circondato e inaccessibile, hortus conclusus di piante fiori e profumi insoliti, visibile e percepibile solamente dall’ esterno.

Del disegno ottocentesco del giardino, ormai cancellato persino nella componente vegetale, abbiamo recuperato la geometria fondamentale: il perimetro, che il progetto sottolinea con il ripristino della cancellata originale, lo spazio tondo centrale, che intendiamo ridefinire mediante una alta fitta siepe di sempreverdi. All’interno di questa quinta circolare si collocano, smembrati e ridotti all’essenziale, i resti di quello che é il sistema affiorante degli impianti sotterranei della Metropolitana, ai quali verrà data dignità di elementi scenografici entro questo palcoscenico alquanto metafisico. I volumi saranno rivestiti a nuovo quali elementi tradizionali di arredo del giardino storico romano: rampa, portale, grotta: immagini di immagini di frammenti architettonici.

Alla piazza-palcoscenico si affronta nell’altra metà del cerchio un sistema radiale di “strade”, riproduzione di labirinto urbano fatto di siepi. Qui saranno collocati elementi di sorpresa ora sparsi nel giardino, quale é ad esempio il bozzetto Rutelli per il Nettuno dell’Esedra.

Piazza, strade, scena teatrale, labirinto: antiche figure che il Giardino ha ricavato dalla forma della Città. La figura del giardino é oggi non l’immagine della natura nell’urbano, ma quella, ancor più arte-fatta di un urbano che rispecchia se stesso attraverso elementi naturali. E forse, prima della parentesi romantica e moderna, é sempre stato così.

NOTE
1) S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, 1929; tr.it. Il- disagio dell~ civiltà, Torino, 1971, p. 205.
2) Ibidem
3) Sull’ etimologia di “Esquilino” si veda G. Pisani Sartorio, “L’ Esquilino nell’ antichità”; in: L’archeologia     di  Roma Capitale tra sterro e scavo, Venezia, 1983, p. 105 n.
4) Orazio, Satire, l°, 8
5) M. Armellini, Chiese di Roma, Roma, I891, p. 318
6) S. Vasco Rocca, Rione XV Esquilino, Guide rionali di Roma”, Roma, 1982, p.96
7) M. Armellini, op. cit., p. 811 M. Armellini, op. cit., p. 811
8) S.Vasco Rocca, op.cit~, p. 80
9) Sino a pochi decenni fa la piazza Vittorio era sede ogni mattina del mercato della manovalanza edile.
10) C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, 1957, 1970, p. 321.
11) Per il giardino romano vedi P. Grimal, voce Giardino e Parco, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. VI, Venezia-Roma, 1958.
12) C. D’Onofrio, “Una gran scomparsa, Villa Montalto”, in Capitolium, a. 1970, n. 2-3, pp.59-63
13) L. Cardosi Alliasi, “Le ville Esquiline, in L’archeologia in Roma capitale tra sterro e scavo, op. cit., pp.253-269.
14) Riprodotta in F.Girardi-G.Spagnesi-F.Gorio, L’Esquilino e la piazza Vittorio, una struttruttura urbana dell’ottocento, Roma 1974, p. 38, fig.II
15) Piante di Roma con la piazza attraversata dall’asse Sistino:
1873, Roma di G. Micheletti con il progetto di Piano regolatore;
1878, Roma edita dalla libreria Spithover;
1881, Roma edita da G. Murray;
1884, Roma di R. Bulla;
1889, Roma edita dallo S.C. G. Viraino (riporta il disegno del nuovo giardino, ma capovolto sull’asse maggiore.
Infine con il disegno realizzato:
1981, Roma edita dall’Istituto Cartografico Italiano.
Tutte le piante in: A P.A. Frutaz, Le Piante di Roma, vol III, Roma 1962
16) M. Manieri Elia– C. Zanella, “Le trasformazioni della struttura funzionale nei primi quaranta anni di Roma Capitale” in: Architettura e Urbanistica, uso e trasformazioni della città storica, Venezia, 1984, pp. 115-128
17) G. Accasto- V. Fraticelli – R. Nicolini, L’Architettura di Roma Capitale, Roma, s.d., p. 187
18) Aragon, Le paysan de Paris, Paris, 1926; tr. it.: Il paesano di Parigi, Milano,I982, p. 133.
19) R. Bonelli, voce Restauro, il restauro architettonico, in E.U.A., voI XI, Venezia-Roma, 1959.
20 Atti della conferenza di Atene per. il restauro dei monumenti, Atene, 1931
21) W. Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. II, Frankfurt, 1977; tr. it.”Il surrealismo; L’ultima istantanea sugli intellettuali europei” in Avanguardia e Rivoluzione, Torino, 1973.
21) vedi: F. Rella, “La vertigine della mescolanza. La lotta del collezionista contro il tempo.”, in Lotus International n. 35, II 1982.
22) In occasione dello scavo per gli impianti della Metropolitana; vedi E; Gatti, “La Casa Tonda”, in L’Archeologia in Roma capitale tra sterro e scavo, op. cit., pp. 165- 166.
23) Sul Ninfeo dell’Acqua Giulia: vedi G. Tedeschi Grisanti, I Trofei di Mario. Il Ninfeo dell’Acqua Giulia sull’Esquilino, Roma, 1977